Charlotte e le sue sorelle di Nora Racugno

Se le mie sorelle fossero ancora vive rideremmo insieme di una recensione simile; ma esse riposano, non si desteranno più per me, e io sono una stupida a farmi così inquietare da ciò che non vale la pena di fermarsi ad ascoltare.

Tra il 24 settembre del 1848 e il 28 maggio del 1849 Charlotte visse la morte di Emily e di Anne (oltre che del fratello Branwell), entrambe più giovani di lei che morì nel 1855, all’età di 39 anni.

È sorprendente che una casa parrocchiale sperduta nella brughiera irlandese, a ridosso del cimitero di un borgo di 4.600 abitanti, possa trasformarsi in un laboratorio letterario, e che tre giovani donne, fisicamente lontane dalla città e dai luoghi della cultura riconosciuta, abbiano saputo raccontare storie indimenticabili, solo in apparenza avulse dalla loro personale realtà.

Ma in quella casa si disponeva di libri, di una educazione religiosa e di una istruzione essenziale; le condizioni economiche erano appena sufficienti, ma si potevano leggere le riviste e i libri offerti dalle biblioteche itineranti.

Se le mie sorelle fossero ancora vive rideremmo insieme…

È forse un miracolo che, nel breve tempo delle loro vite isolate nella natura, le tre sorelle abbiano pubblicato sei grandi romanzi, poesie e numerose recensioni di opere altrui. I personaggi da loro inventati sono donne che scoprono il mondo, si avventurano con coraggio in sentieri non segnati, si misurano con gli ostacoli più insormontabili, cercano una propria maniera di esistere oltre i confini e i ruoli imposti…da un padre, da una Chiesa, dalla Storia.

Qualunque sia ora la sorte del romanzo, l’essere impegnata nello scriverlo è stato un dono per me. Mi ha trasportata da una realtà oscura e desolata a una sfera irreale ma più felice.

Emily e Anne morirono mentre Charlotte scriveva Shirley: ormai sola, si occuperà di curare le opere delle sue sorelle e ripubblicarle finalmente con il loro nome, oltre a comporre Villette, il suo ultimo romanzo.

Non riesco a scrivere libri basati sull’argomento del giorno, non serve che io provi a farlo. Non riesco nemmeno a scrivere un libro con uno scopo morale. O a seguire un’impostazione filantropica, sebbene io onori la filantropia;(…) temo che dovranno accontentarsi di ciò che viene loro offerto: la mia tavolozza non mi consente di usare tinte più squillanti; se dovessi tentare di incupire i rossi o di brunire i gialli, non potrei che combinare un pasticcio.

Scrivere non è rispettare un programma, e nemmeno rispondere a una richiesta esterna; non è soltanto desiderare di farlo, e neppure volerlo a tutti i costi.

La condizione per scrivere è un bisogno dell’anima, affonda le sue radici nel profondo, risale pian piano e diventa impellente, costringe la mano a impugnare la penna e a… scrivere, perché non esistono alternative.

E le parole cadono sul foglio e non possono essere modificate né sostituite, perché sarebbe tradire sé e la propria indiscutibile verità. Quando il romanzo è concluso, e raggiunge chi può leggerlo, non appartiene più a chi l’ha scritto: i giudizi negativi possono dispiacere, quelli positivi confortano ma ciò che importa è che qualcuna, o qualcuno, certamente si riconoscerà in quelle parole, si sentirà parte di quella storia e, in segreto, riceverà la forza che viene dal sapere di non essere più sola.

Celebrare il bicentenario della nascita di Charlotte Brontë è, per me, immaginare le tre sorelle mentre scrivono, ognuna con sé ma contando sulle altre, mentre si osservano, si aiutano, si sorridono perché è scrivere che conta.

Le citazioni sono tratte da Charlotte Brontë, Ho tentato tre inizi. Lettere 1847 -1853, L’Iguana ed., 2015, pp. 247, 221, 329-331.

Aprile 2016