L’amore della verità è sempre accompagnato da umiltà  (Simone Weil)

di Nora Racugno  (dal dibattito “Fine vita” – Cagliari, 13.5.2016)

Fine vita. Una importante occasione di riflessione e dibattito.Vi ringrazio moltissimo per avermi invitata, prima di tutto perché ogni occasione di incontro con voi mi ha lasciato la bella sensazione che qui ci si ascolta, e poi perché il tema di questa tavola rotonda mi riguarda profondamente.

Ho apprezzato la locandina di questa serata ( Fine vita. Un dibattito), perché manca l’articolo! Certe persone usano il maschile (il fine vita), altre il femminile (la fine vita): è ovvio che siano due cose molto diverse!

Io mi propongo di sostenere che, invece, i due articoli debbano sempre accompagnarsi a vicenda, affinché il problema venga considerato in tutta la sua complessità e delicatezza.

Lo sosterrò ponendovi tre questioni per me fondamentali.

Prima questione

La filosofia occidentale, dalle origini a oggi, riflette sulla morte, sul dolore e i suoi insegnamenti. Per fare un esempio, penso a due grandi autori: Agostino, che dichiara di riconoscere l’autorità di “maestro” soltanto al dolore; Hegel, per il quale il “negativo” muove la realtà, la storia, la vita individuale, e che perciò va guardato, compreso, affrontato con coraggio, affinché esso sveli la sua “magica forza”.

La dignità umana è data dalla possibilità di scegliere e, prima ancora, di forgiare e modificare le condizioni che favoriscano la propria scelta. La libertà è sempre il criterio di riferimento anche quando la scelta appare impossibile, quando sembra che le condizioni non si lascino cambiare. In questo caso parliamo di libertà nella necessità: bisogna fare posto alla realtà, accettare l’ordine delle cose, farsene una ragione, ma lavorare su di sé…

Si ha l’impressione di una forza malvagia nelle cose quando queste sono per noi un ostacolo invincibile. …: la leva è un mezzo per dividere un peso senza dividere l’oggetto. La pietra perde allora ogni malvagità; non c’è peso che possa opporsi a qualsivoglia forza; basta sempre stabilire un rapporto tra la nostra forza di 50 Kg, ad esempio, e un peso di 300 Kg. “Datemi un punto d’appoggio, e solleverò il mondo”.

Questa idea sopprime ogni forza malvagia nel mondo. Tra la nostra forza e ogni forza antagonista c’è sempre un rapporto tale da consentirci di agire, di lasciare il nostro marchio nel mondo, qualunque sia la sproporzione.(1)

Nel tempo molte persone, uomini e donne, hanno lasciato il loro marchio nel mondo scegliendo la morte a una vita senza senso, qualora la vita fosse in contrasto con i propri valori e la propria coscienza. Penso a Socrate (avvelenato nel 399 a. C.), a Giordano Bruno (arso vivo nel 1600), a Etty Hillesum (uccisa a Auschwitz nel 1943). Il loro gesto appare nobile e perfino lecito! E’ nobile e lecito perché si è davanti a un aut-aut stabilito da un sedicente giudice esterno? O lo è soltanto quando la morte viene inflitta nella forma dell’uccisione?

Costruisco la mia libertà per dare un senso alla mia vita: perché tutto questo non è valido per dare un senso alla mia morte?

Seconda questione

La fine è importante affinché il fine sia salvo!

L’esperienza ci insegna che anche nella storia di una relazione la fine è il momento più delicato: lì è in gioco il valore dell’intera storia. E, più in generale, la conclusione di un processo dà senso al suo inizio, svela il suo significato e la sua eventuale fondatezza.

E’ necessario che la morte di una persona rispetti la sua vita, che la fine non condensi e trascini il tempo vissuto in una dimensione solo quantitativa: penso alla pretesa di dilatare il termine della propria vita, prolungandola verso un futuro senza qualità.

Molte filosofie invitano a cercare la qualità del vivere calandosi nel presente, nel hic et nunc, e a considerare il presente come vera e unica realtà: investire le proprie migliori energie nel qui e ora, nell’attimo e nella situazione presente affinché la vita sia bella, affinché il proprio passaggio nel mondo lasci un segno positivo di qualità.

Vivere per la morte (Heidegger): vivere questo attimo come se fosse l’ultimo, come se dopo questo attimo non ci sia più niente.

L’essenza di chi si è può cominciare solo quando la vita se ne va. (2)

Sarebbe giusto lasciare la propria storia al mondo, il quale possa interpretarla senza il condizionamento e il peso di una fine non voluta.

Terza questione

Dall’epoca moderna si discute intorno alla natura del corpo umano, definito da alcuni autori una macchina: una somma di parti collegate dal nesso causale, dall’ordine del prima e del poi, perciò scomponibile, conoscibile in tutti i suoi aspetti e controllabile rispettandone la concatenazione.

Altre filosofie sostengono che il corpo è un organismo, un sistema complesso di parti, un insieme di relazioni e funzioni tenuto da … che cosa?

Anticamente si parlava di “anemos”: il vento, il soffio vitale che “anima” la materia e che si dissolve con la morte del corpo; in tutti i tempi è stata posta invece l’esistenza di una sostanza immateriale, eterna e perciò immortale (l’anima, oggetto di fede), che sopravvive al corpo e gli assegna valore.

Per me, le parti che compongono il corpo umano sono tenute insieme dal mistero, da qualcosa che io non sono in grado di definire ma che chiamo “trascendenza”.

Trattare un organismo come se fosse una macchina è uccidere il suo mistero, perciò la trascendenza che lì si nasconde.

Riprendo il titolo del mio intervento: l’umiltà è la coscienza del proprio limite.

E’ necessario stabilire un limite che sia un criterio di azione, e io lo trovo nel rispetto, in una presa di distanza che impedisca di impadronirsi di quel corpo.

L’Amore e la Vita, con l’iniziale maiuscola, fanno parte di un repertorio di parole assassine in nome delle quali, per Simone Weil, si fanno le guerre. In verità sono parole vuote, astrazioni da interrogare sempre, ogni volta che si rischia di superare il limite, di offendere (in nome della Vita) questa singola vita, l’unica reale.

Vi è soltanto un problema filosofico veramente serio, quello della morte volontaria. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. (3)

Io … posso rispondere solo per me.

Nora Racugno

Note

1) S. Weil, Lezioni di filosofia, Milano, Adelphi, 1999, p. 69

2) Hannah Arendt, Vita activa, Milano, Bompiani, 1994, p. 141

3) Albert Camus, Il mito di Sisifo, Milano, Bompiani, 1980, p. 7

(Ho liberamente sostituito la parola “suicidio” con “morte volontaria”)