Laboratorio di scrittura a partire da sé

Omaggio a Giulio Angioni (2) – 23.2.2017

Collana Scritti meditati


Sulla faccia della terra

Consegna
Leggi o rileggi alcuni brani da Sulla faccia della terra di Giulio Angioni, sottolinea qualche breve passaggio che ti colpisce o coinvolge particolarmente e ricopia almeno in parte su un foglio o sul tuo quaderno. Successivamente, scrivi quello che i frammenti letti e riscritti ti suggeriscono, liberamente e senza vincoli, accogliendo le tue riflessioni, la tua memoria, le tue emozioni, i pensieri che ti attraversano.

P. D.
Un libro che nessuno legge, non serve, non comanda. Se no, che libro è?”
“Dite voi, maestro, un libro che cos’è,” dice Vera de Tori, con grazia. E tutti gli altri d’accordo, compresi i tedeschi sempre attenti.
“Cosa per dire cose, questo è un libro, se lo sappiamo far parlare. Se no, sta zitto. Il libro parla solo se tu vuoi, quando e quanto ti garba e quanto sai e puoi. Un libro è l’amico più discreto. Non si consuma un libro, se lo leggi. Anzi, più lo leggi e più cresce. E tu con lui.

La materialità del libro, la concretezza delle parole, che agiscono e muovono desideri e sentimenti; spingono a fare e a cambiare, se stessi e il mondo intorno, per la piccola o grande parte che si voglia agire. Ma questo può avvenire solo se chi legge questa “cosa” la sa usare, perché tutta la potenza del libro ha sì origine da chi lo scrive ma si realizza solo grazie a chi lo legge.

Una realtà che io vivo con emozione e passione, anche qui dentro il laboratorio.

Libro come cibo che cresce e fa crescere e non si consuma. Che acquista forza via via che viene letto e che si incontra con altri libri, perché i libri parlano fra loro, si alimentano reciprocamente attraverso la mediazione di chi legge. Materialità e intelletto. Potenza del libro, capace di cambiare il mondo. Purché chi legge lo voglia e operi per questo.

Bello che per gli abitanti dell’”isola nostra” ci sia voluto un buon pranzo di “merca di lissa”, per riuscire a parlarne fra loro, per sbrogliare la matassa. Un miscuglio così umano, di cibi e di desideri. Grazie anche all’arte di Tidoreddu pescatore.

E io mi decido. Me ne vado sott’acqua fino al naso e agli occhi. A poi all’occorrenza anche più giù, del tutto. A lungo quanto serve. So come fare. So le arti del respiro, quelle dell’aria lunga a non finire, senza
rifiatare. Me l’ha insegnato il vecchio zio Josefo Cocco, a tenere l’aria suonando le launeddas, le tre canne da bocca in armonia, arte di famiglia da molte generazioni di Cocco suonatori. Di canne a me qui me ne serve solo una. Non per suonare. Eccola qui, io spezzo la mia canna dov’è fine, due palmi o poco più tra nodo e nodo, m’immergo giù sott’acqua, me ne sto giù nascosto, spiando e respirando, un capo in bocca el’altro capo della canna fuori all’aria, a fior d’acqua, solo un po’ quando serve, le gote gonfie come zio Cocco a far ballare il ballo tondo. [prevale tatto, pur riferendosi a is launeddas, più ballo tondo che musica]

Mannai Murenu, alla vista di una barca che non può essere amica, per salvarsi si ispira alla musica, all’arte di suonare is launeddas; grazie a quest’arte aveva imparato da ziu Cocco a “tenere l’aria” e nel momento della necessità ne fa tesoro; lui le canne, anzi una sola canna, la usa per respirare, per vivere.
Dalla musica, arte “alta” e spirituale, impara tecniche utili alla sopravvivenza.

Ripenso a quando, nei lunghi dibattiti degli ultimi anni ’60, nella facoltà occupata discutevamo di una società da cui bandire ogni gerarchia fra “architetti e portatori di mattoni”.

Che cosa ha generato la nostra ambizione giovanile di unire materialità e intelletto, concretezza e visione, arti nobili e arti povere, bellezza e dignità del lavoro? Non so rispondere alla mia stessa domanda, e questo mi inquieta. Troppe contraddizioni e revisioni ho visto nello scorrere del tempo.

Sul piano personale, posso riconoscere a me stessa di aver frequentato con passione i libri, di aver incardinato la lettura nel mio vissuto quotidiano e nel mio impegno civile.

Ma quel modo di mischiare spirito e materialità dell’arte, e mischiandole annullare fra loro ogni gerarchia, è qualcosa di più e di diverso che mi sembra di trovare in modo illuminante nella narrazione antropologica di Giulio Angioni. A lui debbo anche per questo la mia gratitudine.

Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Laudate et benedicete mi Signore et onni momento rengratiate per nostro frate libro,
lo quale a le Tue creature da sostentamento et se molti di esso se ne cibano,
illo non si consuma e non si guasta, ma cresce vieppiù e dona guadio et consolazione.
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate per nostro frate libro,
lo quale di materia è facto et maestria et per gratia Tua Signore
prende forme pretiose et parla in lingua vulgare a tucte le tue creature
et sovente cum magno gaudio si accompagna a nostra sorella libertà.


R. S.

Testo libero ma non troppo

Quelli che arrivano

Quando riprendono a dirsi, il giorno o giorni dopo, cercano di tirare qualche filo, di rimettere insieme qualche pezzo, di fare un inventario per ricominciare .
E a poco a poco, ecco la voglia di un recupero, prima di tutto di se stessi. Ecco le donne che riescono meglio a darsi al racconto.
E ripetono, ripetono, ripetono la crudeltà della guerra e della pace che non c’è.
Sono quasi sempre le donne più dei maschi a trovare salvezza nell’agire, nel correre ai ripari, nel fidarsi di noi .
E rinasce lo scopo. C’è da nutrirsi, vestirsi, abitare. E trovare un futuro con un senso. Un senso pratico.
Discutiamo il da fare. Lì ci si ritrova, tutti quanti

Il grande racconto di Vera

Parla Vera de Tori “ Ero e sono una donna innamorata”
Dal fare di Paulinu si capiva molto. Dal suo dire, di meno. E io meno degli altri. Ero e sono una donna innamorata.”
… “E dunque ho incominciato a servire la verità, la libertà e la giustizia. Perché senza di esse la vita non vale la pena.”

Riferisce le parole dell’inquisitore episcopale
“ … Vivevate in disordine e confusione, cristiani con ebrei e musulmani, sani con lebbrosi, liberi con servi, cristiani e maomettani, in connubio tra servi e nobildonne, in illusione folle di eguaglianza, e obbligatoria.”
e nuovamente di Paulinu:
No,” diceva loro Paulinu, “non era obbligo, illusione. Era necessità che non ci fosse chi cade senza aiuto e chi prevale.”

Essere fuorilegge era rifiutare un ordine di cose che non tiene in conto deboli e indifesi. Era combattere l’arbitrio e il privilegio. Almeno combattere per essere lasciati in pace: “Un giorno, quando renderci giustizia non sarà più impossibile, sarà riconosciuto il nostro coraggio dileggiato. …”
[la negazione segue il filo dell’opposizione all’ingiustizia]

La parola, il racconto, serve a definire, a mettere a fuoco i pezzi di vita.
Sono importanti gli inventari, per mettere ordine e decidere cosa conservare dei fatti della proprio vita. Inventario e recupero anche dei sentimenti, delle emozioni. L’amore e gli amori, l’amicizia, la fame che ancora fa pensare a una guerra crudele e al bisogno di pace.
Sono le donne che mettono insieme i pezzi, i propri e quelli di chi gli sta intorno, e costruiscono una nuova vita attraverso il fare – se il desiderio è una pagnotta si va a spigolare – fare qualcosa per cui valga la pena. Anche questo è “servire la verità, la libertà e la giustizia”.

Vivevate in disordine e confusione, cristiani con ebrei e musulmani, sani con lebbrosi, liberi con servi, cristiani e maomettani, in connubio tra servi e nobildonne, in illusione folle di eguaglianza, e obbligatoria
L’inquisitore descrive in modo negativo un aspetto positivo dello stare insieme, “come si viveva in quella vostra isola” , trova scandaloso il mondo dell’ “Isola Nostra” che invece è come il mondo dovrebbe essere.
“ … disordine e confusione” sono un modo di stare insieme senza regole rigide, perché confondere è anche mescolare e questo è positivo. La società medievale rappresentata nel libro è come la nostra, è il nostro mondo, è la vita vera.

“ … non era obbligo, né illusione. Era necessità che non ci fosse chi cade senza aiuto e chi prevale. …”
Penso che Giulio Angioni questo volesse dire, che quest’isola è un pezzo di mondo come il mondo deve o dovrebbe essere, con un progetto, perché il fare, lo stare insieme, è costruire un nuovo mondo, un nuovo modo di stare insieme.
Quindi per stare insieme è necessario trovare anche un equilibrio, che è quello che permette a questa piccola comunità di ritrovarsi e di riformarsi, cioè di cambiare e ricostituirsi.
Cagliari non è sparita, nonostante i Pisani, nonostante gli Spagnoli, nonostante i Piemontesi, nonostante gli Italiani; la comunità sopravvive nel tempo portandosi appresso le cose “necessarie” e la sapienza del fare, l’importanza della verità, della libertà e della [giustizia]


L. S.

Un libro cosa è

Vengono messi a confronto due tipi di cibo: quello che nutre il corpo e quello che nutre la mente, il pensiero e l’anima. Nel primo caso mette in relazione qualità e quantità in funzione della diversa classe sociale di appartenenza. Mentre il nutrimento che scaturisce dal libro ha un valore universale perché tutti se ne possono nutrire anche se non sanno leggere, perché c’è chi glielo racconta; si vengono a creare così legami forti, potenti durevoli.

Quelli che arrivano

C’è tutta la difficoltà a riprendere la propria vita e quella di relazione dopo la guerra che distrugge tutto: beni e relazioni. Ma ,se l ricostruzione materiale è faticosa, quella di relazione ancora di più perché “toglie anche la voglia di giocare ai bambini“.

La guerra toglie la parola e questa sottrazione nega le relazioni umane. La ripresa della parola, grazie alla capacità delle donne che “riescono meglio a darsi il racconto” ed il racconto corale che ne scaturisce servirà a rielaborare i patimenti e le crudeltà subite consentendo a ciascuno di recuperare sé stessi e le parole per dirle e appunto, raccontarle.

Il grande racconto di Vera

In questo brano ho colto un lirismo, che trovo molto bello, per la similitudine che l’autore fa, tra il mare che si sposa con la terra così come Paulinu con la sua compagna….

Pensieri “scaturiti” dalla sottolineatura dei brani

Il potere che può sorgere dalla lettura di un libro (anche se questo è vietato ad un servo come me …)

Nella frase “se lo sappiamo far parlare …” C’è il ruolo dinamico e non passivo del lettore che “interviene” sul libro facendolo “suo” sulla base della propria identità, cultura etc..

“Più lo leggi, più cresce e tu con lui …” la lettura moltiplica le possibili letture.
“Che sia letto … o molti a voce alta in compagnia …”la lettura creativa di comunità, condivisione in un continuum relazionale indispensabile perché il libro produca i suoi molteplici e variegati risultati che, chi ha scritto, non può controllare perché il libro fa un suo percorso, tanti quanti sono i lettori.

L’eternità del libro come nutrimento è sancita in contrapposizione con “i lavori di stagno e di campagna
Che danno da mangiare cose che finiscono …”

La lettura ad alta voce crea un senso di empatia tra chi legge e chi ascolta . La scrittura che successivamente ne scaturisce restituisce la singolarità di ciascun* di noi ma la lettura condivisa moltiplica l’emozione e la conoscenza facendo “brillare” le varie e diverse possibilità di interpretazione e scrittura del brano come i molteplici brillii prodotti da un diamante.

L’isola nell’isola

I protagonisti di questo romanzo sono isolani che trovano rifugio e scampo da una guerra in un’altra “isola” all’interno di uno stagno. E’ proprio vero che chi nasce isolano non riesce a staccarsi dalla sua isola. Ma non si rischia di restare isolati anziché isolani?

Dedica per un regalo

Avevo pensato di regalarti un diamante, ma, fatti quattro conti, ho pensato che fosse meglio un libro. In fondo, mi son detta, il libro è come un diamante: è per sempre.

Ma il libro ha un grande vantaggio perché può essere condiviso, moltiplicando così relazioni e … conversazioni; se poi sono più di uno si possono fare collane!

Il diamante tutto ciò non lo può fare perché ha la vocazione a fare “il solitario”


R. C.

“Io dico che se ricchi e signori provano a mangiare solo merca di muggine con erbe e con arselle, solo questo per anni tutti i giorni a tutti i pasti, com’è successo a me qui nello Stagno, darebbero titoli e ricchezze per una pagnotta di quelle nere nere fatte per i cani.”
“Tu sei saggio di cibo e di Stagno, Tidoreddu. Ma cos’è, trascuri il sapere messo per iscritto? Hai posato il tuo libro. Mi sentivo onorato dal tuo libro ascellare. I libri io li scrivo.”
Tidoreddu s’impressiona, di nuovo confuso, si spaventa di Baruch e dei libri che scrive.
“E io un po’ li faccio, i libri,” dice Paulinu, “o li facevo, da servo dello scrittorio di Santa Maria di Cluso. Addetto agli inchiostri neri e rossi da rubrica, e alle pergamene di pecora e di capra.”
Stavolta è Baruch che s’impressiona: “Sai anche cucire, incollare e rilegare?”
“All’occorrenza sì. Ma so leggere e scrivere, anche se questo è vietato a un servo come me.”
“Oh sì, fai bene, giusta disubbidienza, felix culpa. Un libro va letto, non soltanto fatto, o tenuto sotto l’ascella. Un libro che nessuno legge, non serve, non comanda. Se no, che libro è?”

La bellezza di questo passaggio consiste in questo: che usando parole e costruzioni da gente comune riesce a rendere verosimile che questa gente, con la sua cultura semplice, sia in grado di raggiungere risultati che, raggiunti da raffinati intellettuali, stanno come perle nella storia della cultura, in fondo le espressioni “Tu sei saggio di cibo e di Stagno” e “ci vogliono anche quelli come lui, saggi di libri” condivise anche da altri nel dialogo (benché qualcuno resti perplesso), mostrano che è possibile, anche entro un orizzonte culturale diverso da quello della “cultura alta” giungere alla distinzione epicurea fra “piaceri naturali e necessari” (il cibo povero) e “piaceri non naturale e necessari” (la lettura) e farne uno strumento di giudizio.
E anche la riflessione sui meccanismi di circolazione della cultura: certo che Umberto Eco ne parla in maniera più “alta”, scientificamente meglio argomentata e culturalmente più efficace (ma non nel contesto di una chiacchierata dopo pranzo), ma in fondo, dire che “Un libro è meglio [del cibo per il corpo]. Se lo leggono in molti cresce molto, finch’è letto non smette mai di dire quello che ha da dire, a chi lo legge, che sia letto in silenzio tutto solo, o a molti a voce alta in compagnia”. E questo indipendentemente dall’autorevolezza di chi lo ha scritto o ispirato.
È su questo rapporto con la cultura mediata dai libri (coi quali è proposto anche un rapporto di tipo estetico) che si fonda la dignità dell’uomo. Anche se l’uomo stesso, nella figura dell’inquisitore, ma più in generale delle istituzioni (dal momento che vietano al servo la cultura) a mettere a rischio questa dignità, negandola soprattutto al persecutore prima e più che al perseguitato.

E Paulinu: “È grande sì, la mia sventura. Ma è sopportabile. Anche qui nelle segrete episcopali, per tutti quelli che hanno scelto di vivere con noi nell’Isola Nostra, i beni comuni e inesauribili dello spirito sono più preziosi dei beni privati e consumabili del corpo. Perché se prima uno era uso a togliere agli altri, all’Isola Nostra ha imparato a dare. Se era borioso ha imparato l’umiltà, se avido la generosità, e se lussurioso o ubriacone ha sperimentato la sobrietà e l’astinenza.”
“Così dunque voi qui reclusi realizzate meglio, adesso, l’ideale della rinuncia al mondo.”
“E sperimentiamo ogni istante l’iniquità dell’uomo, che vivendo non fa che accumulare un pesante fardello di colpe. E ci ribattezziamo al fonte delle nostre lacrime, come diceva una delle nostre donne.”
Ma che cosa volevate voi e tutta la congrega, là sull’isola, che cosa chiedi ancora adesso, in fondo, tu, Paulinu da Fraus?”
“Niente, se non a noi stessi. O forse chiedevo e chiedo che i pastori siano più vicini a Cristo e al suo gregge. Che la loro orgogliosa autorità abbia una volta sospetto di sé, perché proprio i pastori come lupi depredano il gregge, e il loro bastone pastorale è una verga impudica.

E se il persecutore insiste col suo atteggiamento persecutorio (e con la pratica della persecuzione) non è per pura e semplice malvagità ma piuttosto perché perseverando in quell’atteggiamento (e in quella pratica) evita di mettere in discussione se stesso, può continuare a mantenere quella sua immonda identità che invece pratiche di vita alternative mettono drammaticamente (proprio nel senso etimologico dell’azione, della realtà fattuale) in discussione. In fondo il modo di vita della comunità dell’Isola Nostra non aveva altro obiettivo che quello di tentare un’alternativa al modo di far funzionare una società che ci si trovava consegnato dalla tradizione (ma è sempre così!) e che invece andava criticato e rifiutato perché chi esercita l’autorità in un gruppo (e magari in una piccola comunità come quella dell’Isola Nostra, dove tutti si conoscono non ce n’è bisogno) deve esercitarla secondo quanto dice Agostino: sentendosi al servizio delle persone che gli sono affidate. Ma questo di solito è incomprensibile a chi esercita l’autorità e l’esigenza ingenua di una democrazia spontanea ed i suoi tentativi di realizzazione sono eresia, perché per chi non comprende altro che l’autorità ed il controllo sugli altri è eresia il tentativo di vivere in maniera autonoma, dandosi la norma da sé. Perché darsi la norma da sé è inconcepibile per chi la regola l’ha sempre subita senza ribellarvisi mai e, quando giunge il suo turno di applicarla e di farla rispettare, la applica e la fa rispettare col criterio della vendetta: vendicandosi sui sottoposti del fatto che non è mai stato capace di ribellarsi a chi lo teneva sotto il suo controllo negandogli sempre l’autonomia. Ma in fondo non era neanche degno di quell’autonomia perché non ne era capace: non sapeva quale fosse la sua essenza, non sapeva su cosa si poteva e si doveva fondare la sua dignità. Lo sapeva invece Paulinu e se lo poneva come obiettivo :
“[…] forse chiedevo e chiedo che i pastori siano più vicini a Cristo e al suo gregge. Che la loro orgogliosa autorità abbia una volta sospetto di sé”.
Ciò che voleva Paulinu era solo che in tutti nascesse la capacità di metacognizione, la capacità di “vedersi dall’esterno” dalla quale soltanto può germogliare la cultura, magari una cultura non sofisticata ma autentico legame fra gli individui perché fondamento (ma anche effetto) di quell’empatia che diviene la base di qualsiasi morale perché, facendoci conoscere chi siamo e che cosa vogliamo ci rende difficile tenere nei confronti degli altri comportamenti ai quali ci ribelleremmo se venissero applicati a noi. Ecco perché bisogna avere il sospetto di sé, perché è il primo passo per conoscere se stessi, che era ciò che diceva Socrate quando andava in giro a far chiacchiere con gli Ateniesi, prima che venisse inserito nei manuali di storia della filosofia, nei quali peraltro Socrate non aveva alcuna intenzione di entrare, e infatti non aveva scritto niente che potesse essere “cristallizzato” in una pubblicazione, proprio come Paulinu: infatti, “Dal fare di Paulinu si capiva molto. Dal suo dire, di meno.”


B. M.

Baruch e gli altri

Baruch l’ebreo, “da molti ritenuto negromante, mago e preveggente”, nonché fine intellettuale, è colui che, sbarcato per primo sull’isola dei lebbrosi insieme ai suoi “sediari” e a tre soldati tedeschi, accoglie al suo arrivo la comitiva composta dal ragazzo Mannai Murenu, da Paulinu, servo di convento, da Tidoreddu, pescatore di stagno, dalle donne Akì, schiava, e Vera de Tori, aristocratica, e il cane Dolceacqua. Egli, dall’alto della sua saggezza, introduce subito i nuovi arrivati al principio su cui si regola la convivenza in quello spazio fuori dalla giurisdizione del potere temporale e religioso che vige, anche se temporaneamente, sospeso in attesa di sapere chi vincerà la battaglia che ancora insanguina Santa Gia, sulla terraferma: “… appena buio, se siete d’accordo, ci riuniamo tutti nello spiazzo grande, là dove c’è la campana appesa al suo traliccio, a dividerci i beni del corpo e dello spirito …” (p.35). Cioè a dire che sull’isola ci si dovrà attenere al principio della condivisione dei beni materiali e spirituali.
Più in là sarà Paulinu, servo di convento e maestro di eversione, a precisare come deve essere la Costituzione dell’isola, “l’ordine” che sarà alla base dei “rapporti fra di noi”: “Noi potremmo essere tutti uguali, maschi e femmine, vecchi e giovani, più o meno sani, forti, sapienti, sardi, alemanni ebrei e così via.” (p.43) E Baruck aggiunge, qualche riga dopo:E tra di noi non c’è servo né padrone, né ricco né povero”. E così fra il pensiero di Baruch e quello di Paulinu si realizza il rovesciamento di tutti i capisaldi che regolano la vita in terraferma.
E tuttavia il vecchio, saggio Baruck non pensa di realizzare l’utopia dell’isola felice, come potrebbe sembrare. E’ troppo saggio per non sapere che la natura umana è a prova di utopia: “Per quanto riguarda il modo di tenersi dei lebbrosi, prima, in questo loro luogo di segregazione, sì, loro, come spero anche noi, si governavano per loro iniziativa. E secondo me tutto succedeva come sempre dappertutto, bene e male, guerra e pace, tirannelli e scrocconi e profittatori, uomini di condivisione e di conciliazione, delinquenti e uomini dabbene. Senza illuderci, facciamo in modo che qui sia diverso, se avremo la ventura di starci a lungo.

Non si illude Baruck, e certo neanche Paulinu, che il tentativo della loro piccola comunità di rovesciare l’ordine del mondo per crearne uno nuovo avrà successo. Ma sanno di doverci provare a evitare i mali di cui essi stessi sono vittime: l’ingiustizia e l’ipocrisia, l’odio e la violenza insiti nei rapporti umani, la discriminazione a danno del diverso e, sempre e comunque, l’oppressione che si abbatte sugli esseri umani con maggiore o minore forza a seconda del posto che occupano nella gerarchia sociale.
E’ Akì, la schiava che diventerà moglie di Mannai, a fare una sintesi del programma dei nuovi abitanti dello stagno: “Tu Mannai … dimostri che c’è gente che vuole ancora un mondo dove si può essere aiutati a vivere, ad essere riconosciuti e persino essere anche amati per quello che si è, tutti quanti. Un mondo che non c’è, ma guai a smettere di cercare di farlo esistere, da qualche parte.
Ecco, è una donna, poco più che una bambina, l’ultima nella scala gerarchica, a indicare l’amore come ideale che dovrebbe informare l’agire umano e trasformare l’inferno in paradiso.
Così, tutti i disperati che approdano all’isola dei lebbrosi ci provano, a formare una comunità senza classi, senza conflitti religiosi o di razza, nonostante nell’isola siano rappresentate le tre maggiori religioni monoteiste e vi siano uomini e donne dalle provenienze le più disparate. Ci provano a scambiarsi alla pari beni materiali e spirituali, e tutti se ne avvantaggiano: c’è chi impara a leggere e a scrivere e chi impara a fare oggetti di utilità quotidiana e tutti imparano a rispettare allo stesso modo le abilità pratiche e quelle di pensiero senza stabilire gerarchie.
E il paradiso dura finché i pisani, “occhiuti falchi di palude”, non si rendono conto che gli abitanti dell’isola dei lebbrosi non soffrono solo di lebbra, ma di altra malattia contagiosa che, se si diffondesse oltre lo stagno prendendo il mare aperto, potrebbe rivelarsi ben più pericolosa della lebbra. E pertanto il potere provvede, per mano dell’Inquisizione e nel nome di Santa Madre Chiesa, a estirpare il male che ne potrebbe minare le fondamenta.
Pochi si salvano dalla carneficina ordinata dall’episcopo e perpetrata con calma e metodo, fra coloro che si salvano Paulinu e Vera, Mannai e Akì.
Di Paulinu e Vera ci viene detto della loro segregazione separata nelle carceri episcopali, di come vengono duramente inquisiti perché ammettano le nefandezze che si compivano nell’isola- lazzareto: “ E dunque testimonia in verità! E’ vero che in quell’isola festeggiavate feste pagane, con gozzoviglie da epuloni, che celebravate pure l’Aid el Kebir, la festa musulmana e pure feste ebraiche, comunque eretiche quanto la festa del montone che al posto di Isacco ha assaggiato il coltello di Abramo?
L’intrepida Vera risponde: “Sì, un paio di volte, al termine del ramadan. Perché c’erano con noi alcuni schiavi musulmani fuggitivi. Ed era cosa buona, per cristiani, ebrei e maomettani. Quel giorno, chi ha ne fa dono a chi non ha, e c’è grande letizia.
Ed è vero che vi si ostentava la peccaminosa vista del seno delle donne?
Non è vero, se ostentarlo è male, perché quello era bene.
E’ fin troppo evidente che Vera e l’inquisitore parlano un lingua diversa: tutto ciò che era bello e buono secondo la testimonianza di Vera de Tori, nella bocca dell’inquisitore diventa turpitudine ed eresia.
Vivevate una vita fuorilegge e nel peccato … vivevate in disordine e confusione, cristiani con ebrei e musulmani, sani con lebbrosi, liberi con servi cristiani e maomettani, in connubio tra servi e nobildonne, in illusione folle di eguaglianza, e obbligatoria. Che non si vedrà mai, nemmeno in paradiso nell’eterna finale gerarchia.

Come poteva capire, il buon inquisitore di quel tempo, convinto di portarsi dietro le gerarchie anche in paradiso, il senso del messaggio e della sfida lanciati dall’isola in mezzo allo Stagno, se ancora oggi la maggior parte degli esseri umani vive nell’illusione “folle” di eguaglianza, e ancora combatte “l’arbitrio e il privilegio” e “un ordine di cose che non tiene in conto deboli e indifesi” ?
Nessuno degli inquisiti rinnega gli accadimenti dell’isola dei lebbrosi, neanche sotto tortura, essi riaffermano invece il valore dell’uguaglianza, dell’amore, della solidarietà, della condivisione e la certezza che le loro convinzioni e il loro coraggio saranno un giorno riconosciuti.
Infine il cerchio si chiude, l’ordine è restaurato, gli eversori di quell’ordine sconfitti. Forse. Perché, Paulinu lo sa, ci sarà sempre qualcuno disposto a prendere il testimone e a combattere anche battaglie perse, magari soltanto perché il mondo, ogni tanto, possa prendere una boccata d’aria buona.


R. D.

[ Scrivo dopo l’ascolto e la lettura di alcune pagine, non molte ma molto dense. Avevo letto, ma non recentemente, altre opere complete di Giulio Angioni e le avevo apprezzate; ma qui ho percepito subito una compiutezza anche formale che probabilmente sarà confermata, alla lettura di tutto il romanzo. Insomma già l’impressione immediata è quella di un’opera conclusiva, più completa e matura delle altre. Capisco che c’è in questo anche la consapevolezza malinconica che si tratta dell’ultima opera di questo autore, che mi ha sempre colpito anche per la sua sensibilità e attenzione verso le persone, qualunque persona. ]
Mi piace l’ambientazione della storia, anzi delle storie, in un tempo lontano di secoli, che l’autore riesce a farmi sentire così vicino. Mi piace la materia, trattata come fuori del tempo. La paura di morire e l’astuzia di vivere con cui il libro si apre; la consapevolezza della propria fragilità di fronte agli eventi drammatici e la forza nel superarli, prima inconscia, poi sempre più consapevole; l’orgoglio di non essere servi anche nella condizione di servi, perché si aspira alla libertà; la rivendicazione della propria dignità di uomini: tutti aspetti che possono essere non solo di quegli uomini e di quelle donne, ma di ciascuno di noi e di tutti i tempi. Uomini e donne ben inseriti nel loro tempo, che non fa solo da sfondo; allo stesso tempo attuali, figure universali pur con le loro caratterizzazioni, per es. , di sardità.
In queste pagine trovo, più che espressa, suggerita una visione del mondo più nitida che nelle altre opere ; ma soprattutto, a me sembra evidente, la speranza di ciò che questo mondo potrebbe essere. Forse diventare?
Mi ha affascinato la materia espressa ma anche, a tratti soprattutto, la parola così potente evocativa e viva da spingere a “giocarci”.
C’è una profondità che si coglie anche nell’espressione essenziale con cui G. A. riesce a esprimere realtà complesse. “Noi siamo per noi ciò che riusciamo a raccontare di noi stessi. E per gli altri siamo ciò che loro raccontano di noi.” L’importanza del raccontare e del raccontarsi, per conoscere e soprattutto per conoscersi, l’importanza della parola, espressa in modo così limpido.
E però, quando mi sembra di aver colto, nelle pagine lette, questa sobrietà di espressione che corrisponde a quella che immagino sia la realtà delle cose, ecco che colgo un salto, un’alternanza anche linguistica. Più che un’alternanza, veramente forse si può chiamare una mescolanza: della parola essenziale scandita in frasi brevi e incisive e della parola inusuale, anche e spesso preziosa, ma mai enfatica e fine a se stessa. Non sembrano, quelle che ho sentito e letto, parole ricercate; danno invece l’idea di essere cercate dentro di sé e lungamente pensate.
In molti casi la parola sembra dettata da un’autentica spinta poetica, un’esigenza di lirismo affascinante, che mi ha trascinato anche alla trascrizione in versi di non poche righe di “prosa”, che non è solo prosa: Ma il cielo è azzurro/ in questa pace nuova. / La polla d’acqua dolce/ mi fa la ninna nanna / … ecc., fino a quell’ostia in cielo/ candida e precaria/che spunta dal tremore d’aria calda.
Questa mescolanza è anche nell’alternarsi di frasi brevi e incisive con un distendersi più ampio del discorso * (esempi)
Il ritmo e il “ suono “ della parlata sarda, anche se la lingua usata è l’italiano, si sente, marcato e piacevole, almeno alle mie orecchie e alla mia sensibilità. Il discorso fluisce, penso grazie a una misura che ho trovato anche nelle altre opere, senza forzature, apparentemente spontaneo; sicuramente frutto di abilità e misura. Non eccessive le parole sarde riportate e le costruzioni sintattiche che seguono l’andatura della lingua sarda*.
Tutto misurato e dosato, mi sembra, per un richiamo a un pensiero sottostante; la parola non è mai invadente, vuol corrispondere alla cosa, sempre al servizio del pensiero del personaggio, alla sua verità.
Condivido anche e trovo vere molte delle cose che ho letto, per es. la meravigliosa verità non apertamente dichiarata, che l’occasione per raccontare e raccontarsi sia il pasto comune. Il romanzo inizia con l’astuzia del giovane garzone Mannai Murenu che lotta per la vita, attraverso una finzione di morte; ma il momento centrale, almeno nelle pagine che abbiamo letto, è il pranzo comune. E’ a tavola che gli uomini e soprattutto le donne si svelano agli amici di sventura e di speranza, per svelarsi a sé.
Le donne sono importanti e, in certe circostanze “centrali” per es. per spingere al racconto o organizzare degnamente il pasto. Ma mi sono sembrate come “filtrate” dallo sguardo amorevole del narratore, insomma idealizzate.
Ma forse lo sono tutte, idealizzate, le persone dello stagno. Devono esserlo, sono la Speranza. Forse lo stagno con la vita che vi rinasce, è una metafora di salvezza.