Laboratorio di scrittura a partire da sé

Omaggio a Giulio Angioni (1) – 9.2.2017

Testi stimolo II

Giulio Angioni, Sulla faccia della terra, Il Maestrale/Feltrinelli, 2015, Milano, pag.22 e segg.

Incontri di Stagno

E dunque questo tale, Paulinu da Fraus, vuole andare a imboscarsi all’isola lebbrosa, con me, compagno di vita e non più di morte, al centro dello Stagno: “L’idea magari è buona. Se non proviamo, non lo sapremo mai,” dice lui.

“Posto che ci arriviamo in quel luogo di morti, più morti di noi.”

“Il luogo peggiore di morte è Santa Gia. E io devo fuggire, più di te.”

“Perché, sei disertore?”

“No. O sì, quasi. Te l’ho detto, sono servo, servo di convento. E adesso sono vivo, e libero.”

“libero? In che senso, libero? Più costretti e braccati di così!”

“Un giorno capirai, se ci va bene. Ma tu, forse dello Stagno ne sai più di me, per essere garzone del vinaio di Seui.”

“Ne so. Ma di lebbrosi no, se non di quelli che ci regalavano i pisani a Santa Gia.”

“Ai pisani passerà tutta questa foia di morte e distruzione.”

Paulinu mi dice delle grandi dispute tra medici e teologi sul pericolo dei contatti col morbo peggiore che ci sia. Nei mesi dei lanci ammorbanti, a Santa Gia si è creduto bene decidere che la lebbra non è malattia naturale, ma castigo di Dio. E a Dio ci si è affidati: “Chissà. Fatto sta che in sette mesi nessuno si è presa la lebbra a Santa Gia.”

“Abbiamo imparato presto a rimandarli al mandante,” dico io.

“Tanto faceva prima la fame della lebbra.”

Paulinu da Fraus è uno che ti sa convincere. Lo capisco subito.

“Si può provare,” dico. Isole a latitare lontano dai pisani ce ne sono parecchie
nello Stagno.
Più importante però era che lui, Paulinu da Fraus, con gli anni giusti di Cristo quando si è mostrato al mondo, be’ sì, è un uomo fortunato, perché io so come arrivarci, all’isola dei lebbrosi, per un tragitto di fondali bassi, secondo la stagione. Mi ci sono abituato, col mio padrone vinaio di Seui, barattando vino di contrabbando coi lebbrosi. Si faceva di notte. Ce lo pagavano con seta cruda e cotta, di baco vero che mangia moragelsa.

E di nuovo sdraiati a riposare, aspettiamo che la luna scenda dietro i monti di Caputerra, e che i mei panni si asciughino un po’. Nascosti tra le erbe alte della riva, gli spiego certe cose. Poi lui lo saprà meglio di me, come si vive e si viaggia per lo Stagno. A piedi, molto meglio a piedi si va per quei luoghi, più adatti al cammino che al remo e alla barca. Certo che quando ti stanchi, non hai da sedere, a meno che non te lo porti da te, da sedere, che ti tenga più o meno al di sopra del pelo dell’acqua. Questo per dirne una. E che il tragitto buono quest’anno d’estate può essere il peggiore l’estate che viene, per dirne un’altra. E che il fondo dove cammini e posi i piedi, che non sai com’è fatto, non sai mai abbastanza come li sopporta i tuoi
passi, che pure non devono essere scalzi, pena inciampi e ferite di bestie sul fondo: “E poi dimmi che fai, per dirne una terza, se ti ferisci a un piede, con l’acqua su alle cosce, al fianco o anche di più?”

E così, ci siamo sistemati le vesti, ci siamo armati di due canne robuste ripulite, una per mano, ci siamo fatti il segno della croce e ci siamo avviati con speranza, cercando di tenerci  più vicini possibile al limite delle saline, ai loro margini alti.
Prima dell’alba avremmo potuto essere abbastanza distanti da non dare nell’occhio, alla luce del giorno.
La prima meta è l’isola vicina del Bordello, a poche centinaia di passi dalla nostra riva.
Fino a pochi giorni prima era servita da una barca e da un barcaiolo con diritti ereditari di cunnatico. Ricordo bene che durante il tragitto, con l’acqua alle ginocchia,
ho detto a Paulinu di com’era il nostro commercio di vini col Bordello. Ma soprattutto di com’era il commercio silenzioso coi lebbrosi. Di come i lebbrosi per questo tenevano ancorato, a trecento passi dalla loro riva, uno zatterino di tronchi, piccolo che non si notasse da Castel di Castro e nemmeno da Santa Gia, tenuto sempre con pesi sotto il pelo dell’acqua. Ma tirato su a galleggiare la notte convenuta, sempre quella del primo sabato del mese. Io e il mio padrone vinaio di Seui ci andavamo di notte col vino in due botticelle da spalla, le lasciavamo sullo zatterino e tornavamo indietro. La notte dopo, di nuovo. Di norma sullo zatterino c’erano ancora le due botticelle, e accanto il tanto di panno di seta che loro, i lebbrosi, offrivano in cambio del vino. Se ci andava bene, noi lasciavamo il vino e ci portavamo via quel tanto di panno di seta. Da non toccare mai a mano nuda e senza un qualche attrezzo intermediario, fino a dopo un segreto isolamento di tre mesi.

Ma non andava sempre così liscia. Quelle trattative umide, buie e silenziose potevano durare a lungo. Se il vino non era giudicato buono, di nuovo in trattativa. Per dirne una. E per dirne un’altra, il prezzo poteva variare per molte ragioni, sia nostre e sia loro, a seconda dell’annata dell’uva da vino di Pauli o di Quartu o di Jertzu, della riuscita del gelso e del baco da seta, del prezzo del refe napoletano e del biscotto sardo, e di molto altro ancora. Ma sempre in silenzio. E a debita distanza.

Quella notte tutta l’isola Bordello ci appare deserta. Né lenoni, né mezzane, né puttane,come se fossimo di Settimana Santa. Però ci hanno esercitato fino a qualche giorno fa, per le soldataglie assedianti, in sette capanne tutte di falasco. Paulinu e io ci mettiamo a cercare dappertutto qualcosa da mangiare o da bere. Magari tutt’e due. Niente.
Ma ecco a un tratto un mugolio, molto vicino, ma dietro una capanna di falasco. Poi un guaito. E infine un cane. To’, un cane. Da quando non ne vedo uno. Cani e gatti ce li siamo mangiati tutti già da un pezzo a Santa Gia. Un cane, che non ci fa le feste, annusatore e incerto, ma poi ci fa capire, perentorio, che faremmo bene, che bisogna seguirlo. Chissà dove.
Lo sa lui. Ci porta in un punto dove si mette a scavare, metodico, fino a offrirci la vista gioiosa di tre pani di Seddori e di una bella forma di formaggio, avvolti in erbe aromatiche di Stagno. Ben di Dio che subito facciamo nostro. Senza scrupoli, che non è il caso. Anche il cane è d’accordo. E ci fa capire sempre perentorio, che faremmo bene, anzi è urgente a stargli ancora dietro. Ma lo facciamo meno volentieri, con quei santi odori di cibo sotto il naso. Ma non si sa mai. La fortuna per noi comincia a cambiare con un cane. Strappando tozzi di pane e mangiandoli com’è facile capire, gli stiamo ancora  dietro, fino alla porta di falasco di una capanna di falasco, quella di prima, dove il cane abbaia con impegno alla porta, a chi ci sta dietro, dentro.
Sono tre, due donne e un uomo. Se non è dire troppo, dell’uomo.  Paulinu, serio, forse per capire chi sono e cosa farne, in pantomima bizantina invoca san Cristoforo, santo ausiliatore, passatore di guadi e fiumi in piena, che in un quadro al convento ha piedi sporchi di fango e di caligine, ma è pantocratore di poveri, sorridente e benevolo, le braccia protese ad accogliere  Nicita e Aquilina, devote e convertite a vita santa. E già si vede che non sono gente dell’isola bordello, ma in cerca di scampo come noi. E che non si conoscono tra loro, insieme qui nello sconquasso.
Ma dato il posto del nostro primo incontro, dico subito che delle due donne, una, Akì, sarà la mia consorte, questa ancora oggi qui con me per grazia di Dio a commentare scontenta ogni mio dire di quei tempi. L’altra, Vera de Tori, con maggiore travaglio sarà degna consorte di Paulinu da Fraus.